mercoledì 22 febbraio 2017

Banff, prima o poi doveva succedere



Prima o poi sarebbe successo. Ieri sera sono uscito dal Banff Film Festival World Tour con un po’ di delusione. L’impressione è che al mondo del cinema outdoor stiano venendo a mancare le idee, dopo un’indigestione di novità sparate a raffica negli ultimi anni. Senza forse tenere conto della longevità di certi prodotti.
Probabilmente ci si è messa anche la scaletta, non lo nego. L’apertura con il trailer allungato di Tight Loose è il classico pugno nello stomaco dello spettatore, l’equivalente del pezzo che apre un concerto con quel muro di suono che quasi ti porta via. La produzione è una garanzia, ma dopo l’estasi per l’ultimo lavoro di TGR si piomba in un vuoto, che si colma solo con l’altra garanzia proposta nel finale, la premiata ditta Danny MacAskill e Red Bull Media House. Una partenza blanda ed una scaletta in crescendo forse non mi avrebbero lasciato questo effetto di delusione.
In un carosello di cose già viste e riviste, si salvano solo gli skater norvegesi di Northbound. Il loro film è qualcosa di veramente nuovo, che anche in mancanza di action travolgenti stuzzica la curiosità dello spettatore. Vedere gli skate scorrere sul bagnasciuga gelato, senza che le ruote si piantino nella sabbia, nella penombra dell’inverno scandinavo, ha il suo perché.
Non male anche Ace and the desert dog, la storia di un uomo che decidere di vivere con lentezza e di farsi un trekking di 60 giorni intorno a casa nello Uath selvaggio con il suo vecchio cane. Una storia commovente che però devia decisamente verso il documentario. La stessa strada intrapresa da Iran: a skiersjourney e da The trail to Kazbegi. Belle immagini, bel montaggio per entrambi, niente da dire. Ma manca il guizzo, il colpo di genio. Interessante vedere la realtà dello ski resort a pochi chilometri da Teheran o i sentieri della Georgia più remota, ma entrambi sanno più di documentario che di action sport.
Se Doing it Scared mi è sembrato ai limiti del patetico, in Poumaka ho fatto fatica a trovare il senso di arrampicare su una torre di fango nella giungla. Manca il gesto da fuoriclasse, manca l’eleganza dei film girati sul verticale. Troppo pesante la marchetta Salomon in The Trail Dog, divertente ma niente più The Fledglings, anche questo per me non all’altezza del Banff. Per fortuna ci pensa Danny con il suo Wee day out a chiudere in bellezza, ma non fa dimenticare i ben 15 Euro spesi per il biglietto. L’inflazione di offerta gratuita e legale sul web rischia di far perdere la poesia ad un evento come il Banff. L’impressione è che si cerchi di compensare la poca qualità generale con la quantità o con i budget imponenti, che garantiscono corsie preferenziali nella diffusione ma che non sempre ci consegnano prodotti all’altezza delle aspettative. 

lunedì 14 aprile 2014

Beograd


Perchè proprio Belgrado?
Una vacanza in moto lungo le coste croate, con una toccata e fuga all'interno della Bosnia-Erzegovina, ha fatto esplodere una curiosità verso le zone meno battute dai turisti. Curiosità, ma soprattutto voglia di scoprire un mondo così diverso ma così vicino alla nostra Europa occidentale.
Detto fatto, si va a Belgrado. Easyjet vola verso la capitale serba da Malpensa, il venerdì e il lunedì, perfetto.
Arriviamo all'aeroporto Nikola Tesla e saliamo sul taxi di Zoran, un omone simpatico che ci porta a Zemun in una ventina di minuti. Zoran ha voglia di parlare, di far conoscere la sua nazione. Ci mette in guardia: "I serbi non sono cattivi, spero non vi siate fatti una brutta idea di noi". Non sarà l'unico a dircelo. Prima di arrivare a destinazione si accorge che guardiamo i palazzoni poco curati e tutto quel disordine ordinato che sta ai bordi delle strade. "Quando c'era Tito si stava bene, almeno tutti avevano un lavoro". Chissà, magari Zoran è un nostalgico del vecchio regime, ma pare che non sia l'unico a pensarla così. Sicuramente il primo colpo d'occhio non fa pensare che le cose ora vadano meglio per un popolo che non può ancora parlare di stabilità.



Attraversiamo la periferia di Novi Beograd, la parte moderna della città, tutta in pianura, tutta uguale, tutta grigia. Blocchi di cemento altissimi, squadrati, freddi. Dell'est verrebbe da dire. La Torre Genex dà il benvenuto a chi arriva da ovest. Zemun, il sobborgo del nostro albergo, però è diverso. Case basse, colorate, sulla riva del Danubio.



La prima sera è sufficiente per un giro veloce del centro, l'autobus ci porta in pochi minuti sulla collina sopra la confluenza tra Danubio e Sava, dove sorge la parte vecchia della città. Un giro veloce sulla Mihailova, la via pedonale del centro, poi una cena fantastica al Little Bay, dietro al teatro dell'opera. La buona cucina è una costante qui nei balcani, la gentilezza del personale non è nemmeno paragonabile con l'Italia. Basterebbe così poco. Il primo contatto con Belgrado è positivo. Le vie del centro sono piene di gente, soprattutto giovani, i locali sono accoglienti, la città è davvero viva, più di quanto ci aspettassimo.





Ripartiamo da Zemun per il primo giorno intero di visita, prima tappa il mercato dietro al nostro albergo. Ecco, i mercati meritano una menzione particolare. File strettissime di banchi, straripanti di merce ed ordinatissimi, raggruppati per genere. Fiori, pasta e formaggi, carne, frutta e verdura, è un labirinto. La zona delle pescherie è eccezionale, quando due ragazzi vedono la macchina fotografica fanno a gara per mostrarmi il pesce migliore del loro banco. I mercati di quartiere sono frequentati dalle fasce meno ricche della popolazione e si vede. Signore anziane, a cui è difficile dare un'età, con la schiena curva e i volti segnati da una vita di fatica, sono ancora lì, a sistemare con precisione millimetrica la loro merce. Mi sento un po' a disagio, quasi in colpa, ci guardano come se fossimo alieni. Il divario sociale da queste parti è altissimo. Inizio a pensare che Zoran non abbia detto una cazzata.



Passiamo la via pedonale di Zemun e arriviamo alla fermata, direzione centro. Con il sole l'effetto è diverso, il panorama dal ponte Brankov spazia dalla confluenza dei fiumi al tempio di Sveti Sava. Il colpo d'occhio è fantastico. Non aspettatevi però quella patina di perfezione e di ordine tipico delle città turistiche. Belgrado si sta attrezzando, forse per questo è ancora genuina, è come una bella ragazza senza trucco, appena sveglia ma con un raggio di sole che le illumina gli occhi, tremendamente intrigante ed attraente.




L'autobus ci lascia davanti al mercato di Zeleni Venac. Alzando gli occhi notiamo subito un palazzo abbandonato, vuoto e senza finestre. Non mancano i cartelloni elettorali con riferimenti al 1389. Dall'altra parte della strada invece svetta l'Hotel Moskva, il più antico e lussuoso della città. Ci abitueremo a questi sbalzi. Notiamo una piccola folla davanti all'hotel. Gente di tutte le età, dai bambini ai pensionati, che consultano dei fogli e si scambiano informazioni. Non capisco, mi avvicino. No, non può essere! Si stanno scambiando le figurine dei calciatori! Non avevo mai visto una cosa del genere, ognuno arriva col suo mazzo di doppie ed un foglio coi numeri delle figurine mancanti. Gli occhi dei bambini o dei pensionati brillano allo stesso modo quando si trova la figurina mancante.




Percorriamo tutta la Mihailova, fino al parco della fortezza di Kalemegdan. Attraversiamo il parco ordinato e pulito, poi entriamo nella fortezza che domina la confluenza tra Sava e Danubio. All'interno troviamo il museo militare, che passa in rassegna tutta la storia della Serbia, dal punto di vista dei serbi. Le stanze finali sono dedicate all'"aggressione" della Nato del 1999, per mettere fine all'invasione del Kosovo. Non mi sento in grado di giudicare, sicuramente tutta la questione balcanica è sempre stata trattata con superficialità dall'Europa occidentale, bisognerebbe approfondire per capire meglio. Lo farò, la mia curiosità non si può fermare qui.





La fortezza è ben conservata, visitiamo uno dei pozzi che ha sempre garantito l'acqua potabile alla città, poi ci dirigiamo verso la parte bassa del parco, passando davanti alle chiese ortodosse di Ruzica e Sveti Petka. Usciamo dalla fortezza, girando intorno allo zoo cittadino, poi torniamo in centro. La Mihailova ora è un fiume di gente, i locali sono pieni e diversi artisti di strada colorano la via. Il cuore pedonale è anche la vetrina di Belgrado, poche centinaia di metri più in là si vede però una realtà diversa.



  

Continuiamo a girare, ogni angolo ha qualcosa da scoprire. Passiamo davanti al parlamento, poi prendiamo il filobus che ci porterà alla casa dei fiori, la tomba del Maresciallo Tito. Non so perchè non la chiamino semplicemente per quello che è, forse per nascondere un periodo dalle tante ombre, rimpianto però dalle generazioni che l'hanno vissuto. Il parco è perfetto, nemmeno un filo d'erba fuori posto. La tomba di Tito non è solo il mausoleo del discusso dittatore, sembra un sacrario per i nostalgici della Yugoslavia. All'ingresso, dentro al book shop, si respira quell'atmosfera simile a quella dei luoghi della Ostalgie di Berlino. L'edificio principale è freddo, con l'interno di marmo bianco. Al centro la lapide di Tito, a fianco quella della moglie, morta nel 2013. La casa dei fiori ed il parco sono tra i monumenti meglio conservati di Belgrado, sono sempre più convinto che Zoran non fosse l'unico a pensarla così.




Riprendiamo il filobus, lasciando perdere i vicini stadi di Partizan e Stella Rossa, non abbiamo tempo. Non sono appassionato di calcio, ma la rivalità tra le tifoserie di Belgrado ha sempre stuzzicato la mia curiosità e va ben oltre la valenza sportiva. Il legame tra le tifoserie, l'ultranazionalismo e le dinamiche sociali degli ultimi 25 anni di storia è forte. Si dice che la scintilla fatale per lo scoppio delle guerre yugoslave degli anni '90 sia rappresentata dagli incidenti tra i tifosi della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa, guidati da un certo Željko Ražnatović. Non vi dice niente? Beh, se dico Arkan vi dice molto di più.
Il filobus ci riporta verso il centro, ma scendiamo a metà di Kneza Milosa per vedere i due palazzi del governo bombardati dalle forze Nato nel '99. Ferite ancora aperte, a quei palazzi non ha ancora pensato nessuno. Forse per cercare di dimenticare in fretta una tragedia ancora così vicina.



Un passaggio veloce alla stazione, me l'aspettavo più grande per una capitale. Solo dopo ho saputo che era una delle fermate dell'Orient Express, oggi sembra una stazione italiana di provincia. Passaggio veloce al piccolo (e ben nascosto!) museo dell'automobile, con qualche pezzo interessante, poi torniamo sulla Mihailova e visitiamo Ziveo Zivot una collezione di memorabilia degli ultimi decenni, davvero bella. Mi ha ricordato il museo della DDR di Berlino. Birra e relax all'Ok.no (consigliato), poi cena a Skadarska in un ristorante tipico, con musicisti rom che suonano tra i tavoli. Niente pacchianate turistiche, anche qui tutto è genuino, con cevapcici e pljeskavica eccezionali.




La seconda mattina ripartiamo da Zemun, visita veloce al quartiere fino alla torre, poi torniamo in centro per veder il Museo Nikola Tesla. Ci sarebbero da scrivere fiumi di parole sul personaggio che ha aperto la strada a tutte le tecnologie moderne. Non mi dilungo e mi limito a dire che il museo è molto interessante ed il ragazzo che guida nella visita simpaticissimo (lo stesso di Shuffolato). Pochi passi e siamo davanti al tempio di Sveti Sava, che svetta sulla collina e si vede da ogni angolo della città. Maestoso fuori, vuoto dentro, perchè ancora in costruzione.



La domenica è quasi tutto chiuso, quindi non ci resta che andare a fare due passi lungo la Sava, passando dal porto fluviale e mangiare in un bel locale con un panorama fantastico sul fiume e sulla città. Per capire qualcosa di più sulla dei serbi passiamo un'oretta all'Usce Shopping Center, un mega centro commerciale alle porte di Novi Beograd.



Niente di diverso dai nostri centri commerciali, le grandi firme ci sono tutte, ma gli unici negozi pieni sono quelli dei marchi di abbigliamento locale, decisamente a buon mercato. Diesel, Desigual e simili sembrano riservati a pochi, anzi pochissimi. I belgradesi hanno gusto nel vestire, specialmente le ragazze. Beh, diciamo che queste starebbero bene anche con un sacco addosso, è difficile vederne una bassa e brutta. Quando usciamo è buio e la passeggiata sul ponte ci regala una bellissima vista in notturna.



L'ultimo giorno abbiamo solo la mattina per un giro veloce davanti alla chiesa di San Marco e lungo il Bulevar kralja Aleksandra, la via più lunga della città, piena di negozi lontanissimi dai fasti della zona pedonale. Un taxi ci riporta in aeroporto, prima di decollare mi aspetta la ciliegina sulla torta (anche per la forma della costruzione!), il museo dell'aviazione. Struttura particolare, costruita nel 1954. Non le avrei dato sessant'anni. Fuori qualche rimasuglio della flotta jugoslava, dentro parecchi aerei interessanti di produzione slava e sovietica. L'angolo più visitato è sicuramente quello con i resti di un F-16 e di un F-117 Stealth americani abbattuti nel '99, una sorta di trofeo di guerra.



Arriva l'ora della partenza, giusto il tempo per un panino e per finire gli ultimi dinari, investendoli in Bananica, gli snack alla banana ricoperti di cioccolato. Ma perchè non li esportano??
Che dire, Belgrado non è la tipica città turistica, ma un vero tuffo in un altro mondo. Sarei rimasto volentieri qualche giorno in più, anche solo per passeggiare e guardarmi intorno, per osservare la gente. Probabilmente ci tornerò, sicuramente tornerò nei balcani. Prossime fermate Montenegro e Sarajevo.
Zbogom!


Qui il resto delle foto.

sabato 1 marzo 2014

Sanremo 2001, il panino della mamma


Sanremo, 2001. Penultima edizione del Rallye mondiale. Quello che sognavamo da bambini, quello che ci ha fatto emozionare la prima volta che abbiamo visto in azione la Subaru di McRae. Un sogno finito nel 2003, che ha lasciato ricordi indelebili.
Arriviamo in macchina, con il bagagliaio pieno di ogni genere di conforto per affrontare la notte in tenda sul Passo Teglia. 
Prima però la visita di rito a Sanremo, collassata di macchine con targhe di mezza Europa, con quel parco assistenza così affascinante ed assurdo allo stesso tempo. Due corsie strette tra il mare e la ferrovia, dove trovavano spazio i mezzi già parecchio ingombranti dei team ufficiali. Oggi sarebbe impensabile.
Posteggiamo, con la solita discreta botta di culo, vicino al porto, poi via, di corsa verso la pedana di arrivo. Le macchine stanno ancora passando, faccio in tempo ad arrampicarmi su una transenna per fare qualche scatto. Sainz, Bugalski, McRae, Makinen, Puras, Panizzi, Delecour. Quelle foto sono ancora lì sul muro di camera mia, credo che ci resteranno per sempre.
Passati i big, partiamo per la solita passeggiata in assistenza, in mezzo ad un fiume di gente che quel lungomare non vedrà mai più. Poco importa se riuscivamo a vedere poco o niente, l'importante era essere lì, al Mondiale. Fieri di aver già fatto fuori un rullino da 36, sperando in un risultato decente, perchè lo schermo della reflex digitale era ancora lontano e dietro ogni scatto c'era la speranza di una foto da poter mostrare agli amici invidiosi.
Passiamo in rassegna tutte le assistenze, poi ci infiliamo nel sottopasso, stranamente deserto. Solo due ragazzi seduti sugli ultimi scalini, con davanti una coppia sui 65, parlano francese. Ci fermiamo ad osservare la scena. Uno è tarchiatello, l'altro basso, asciutto, coi capelli a spazzola e la tuta abbassata a metà che lascia intravvedere un fisico da ginnasta fasciato nella t-shirt Citroen. Il ragazzo sorride, sa di averla fatta grossa. E' in testa al Rallye di Sanremo, alla prima partecipazione con la Xsara WRC ufficiale. La mamma gli porge un panino fasciato nella stagnola, lo stesso panino della mamma che è nello zaino di altre migliaia di ragazzi sulle prove speciali, il papà si complimenta con lui. Pochi attimi, poi i due ragazzi salgono le scale e vanno verso l'albergo, passando in mezzo alla folla che li ignora.
Quel ragazzo era Sebastien Loeb.




giovedì 27 febbraio 2014

Passion Lives Here

Passion Lives Here. Ricordo bene la frase commossa, che il sindaco Chiamparino, con la voce rotta dall’emozione, pronunciò durante la cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Torino 2006. Sono passati otto anni ed i Giochi invernali sono approdati a Sochi, Russia. Famosa località balneare, sì non ci sono errori. Balneare, costiera, sul mare. Se per l’altrettanto costiera Vancouver nessuno ha mosso una critica, su Sochi sono piovute polemiche dai media, ancora prima della cerimonia inaugurale. Strana gente  questi media, pronti a coprire d’oro l’organizzatore se gli fa trovare un menù a scelta tripla al ristorante, ma altrettanto capaci di seppellirlo nel letame se uno shuttle per portarli ad un evento ritarda 5 minuti.
Ecco, a Sochi abbiamo assistito ad una sfida all’ultimo ashtag o all’ultima retwittata (quanto vi piacciono questi termini), ai limiti del ridicolo, con le gare pronte a passare in secondo piano. Partite le competizioni, non è andata così. Forse gli organizzatori italiani, oltre ad un’Olimpiade indimenticabile, coniarono uno slogan che dovrebbe seguire i Giochi invernali ogni quattro anni. Passion Lives Here, tutto il resto sono solo parole.

Lo Sport torna subito protagonista, per fortuna qualcuno si ricorda ancora delle gare. Passione, sacrificio, emozioni, le Olimpiadi sono soprattutto questo. O almeno ci piace credere che siano ancora così, anche se per i malpensanti il business manovra il tutto da dietro le quinte. Ma per quelle due settimane è bello mettere tutto da parte. Location infelici, clima inadeguato, popolazione poco accogliente. Chi se ne frega. Passion Live Here, ovunque siano i Giochi. Nel mondo attuale le distanze non esistono più, le competenze si possono comprare, ce lo hanno insegnato Qatar e Bahrein con il Motorsport, lo ha confermando Sochi con le Olimpiadi Invernali. Battipista e tracciatori provenienti dalle Alpi, impianti costruiti dal top delle aziende europee. I Giochi, o forse sarebbe meglio dire il business, hanno abbattuto tutte le frontiere. Quindi non preoccupiamoci per le prossime Olimpiadi made in Korea. Quello che appare in tv e che arriva al pubblico, difficilmente sarà un fallimento, come successo a Sochi. Dimentichiamoci i tempi del romanticismo, le Olimpiadi sono un’industria in cui ogni piccolo meccanismo deve funzionare alla perfezione, per fare arrivare allo spettatore un prodotto perfetto. Anche se ci piace pensare che quel Passion Lives Here di Torino fosse dannatamente sincero. Sperando di rivedere nel 2022 la stessa emozione e lo stesso orgoglio dei torinesi negli occhi del popolo ospitante, qualunque esso sia.